Un certo Lele Tiscar

Goffredo Pistelli
13 min readNov 19, 2021

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Lele Tiscar con uno dei molti figli avuti in affido nel suo impegno con l’Associazione Cometa di Como

Un mese fa, in un incidente, è terminata la sua vita. Terrena, perché lui credeva fosse solo il “centuplo quaggiù” di quella eterna. Raffaele Tiscar ha vissuto 65 anni in pienezza. Nel marzo del 2015 me ne raccontò un pezzo, per il dorso toscano del Corriere. Ho ritrovato, nello scambio di mail con Paolo Ermini, che allora lo dirigeva, la versione lunga che avevo tirato giù di quell’intervista, nel pieno dell’entusiasmo di quell’incontro comasco. Diciottomila battute e, ovviamente, la pagina ne teneva meno di un terzo. In quello che i cristiani chiamano trigesimo, appunto 30 giorni dalla morte, la pubblico.

Accetta l’intervista a condizione che non si parli del suo lavoro al Governo, ossia la vicesegreteria di Palazzo Chigi, dove segue dossier importanti, a cominciare dalla banda larga. Raffaele “Lele” Tiscar, 60 anni a giugno, nato per sbaglio a Bari, “mio padre era un militare di carriera”, ma cresciuto fra Siena e Grosseto, formatosi a Firenze, dove è stato giovanissimo protagonisti della politica di fine anni ’80 e primi anni ’90, assessore alla casa in Palazzo Vecchio e poi parlamentare Dc, Tiscar, dicevamo, vive in Lombardia ormai da vent’anni. Da due, quando Matteo Renzi l’ha chiamato a Roma, fa il pendolare: dal lunedì a venerdì nell’Urbe, il fine settimana, con la famiglia, a Como. Uno dei molti toscani che la vita o il lavoro hanno condotto fin quassù.

Domanda. Nato a Bari, però cresciuto a Siena.

Risposta. In via della Galluzza, contrada dell’Oca, fino agli otto anni.

D. Che ricordi ha?

R. Molto belli. La cucina di mia nonna, di quelle economiche, col piano a cerchi concentrici in ghisa, che si alimentava dall’alto, e sul quale si mettevano le bucce d’arancia per profumare la casa.

D. Perfetta immagine della provincia italiana anni ’60.

R. È vero. Alimentare il fuoco era un rituale: accompagnavo mia nonna in cantina, dove lei riempiva una balla di juta di legni, io ne arraffavo una bracciata. Stavamo al quarto piano, di una vecchia casa da cui si vedeva Fontebranda.

D. Altre immagini di quella Siena?

R. Il negozio della lattaia, dove il latte arrivava in grossi fusti d’acciaio, quello appena munto, e che poi in casa si doveva bollire. Mi vedo in fila col bricco o con la bottiglia. E poi…

D. E poi?

R. Le passeggiate, la domenica pomeriggio, fuori porta San Marco, dove finiva la città e cominciava la campagna. Si arriva fino a un negozietto isolato che faceva il panino col buristo. Una goduria.

D. Contradaiolo?

R. Per la verità mia mamma mi aveva regalato una bandiera del Drago, per cui andavo a sbandierare, da solo e di nascosto ai miei amici, su un fianco della basilica di San Domenico.

D. E la carriera, nel senso della corsa?

R. Per quella tornavo contradaiolo del Papero. Ricordo che una volta, per un Palio dell’Assunta, riuscì a prendere un colonnino, sulla diritta opposta alla Torre del Mangia. Ambitissimo, ma dovevi assicurartelo la mattina: e rinunciare a tutto, dal bere alla pipì.

D. Poi venne Grosseto.

R. Sì, nel 1964. Una sorella più grande rientrava dalla Germania, dove aveva lavorato, e tutta la famiglia si ricongiunse là con degli zii che già vivevano in Maremma.

D. Com’era, quella cittadina, allora?

R. Vivevamo a Barbanella, quartiere di periferia di recente costruzione e abitato soprattutto da aviatori o addetti dell’aeroporto militare, una delle principali industrie grossetane, allora.

D. Nessuna bandiera da sventolare, laggiù…

R. Infatti, ma c’era un enorme campo di grano, limitato da frutteti e ad alberi di gelso di una fattoria. Quando le spighe biondeggiava alte, quel campo diventava la nostra jungla vietnamita. E il cane del fattore abbaiava furioso al nostro vociare. Poi il podere fu venduto e al posto del campo fu costruito il cinema Splendor.

D. Che cosa ci andavate a vedere?

R. Era la stagione dei film comici francesi con Louis De Funes. Ha presente?

D. Come no? L’ometto basso e scattoso.

R. Sulla stessa strada, non molto lontano, c’era Villa Morante, la più bella della zona. Si sapeva che era meta di gente importante. E stravagante.

D. La dimora della grande scrittrice Elsa.

R. Precisamente. Io ero in classe con Laura, la nipote, che sarebbe divenuta attrice, con cui ho fatto le elementari. Ne ero innamoratissimo.

D. Ci andò mai, a Villa Morante?

R. Sì, due o tre volte. Ricordo una festa coi fratelli più grandi e con la sorella più piccola, Lucia.

D. Innamorato di Laura Morante, e che faceva per conquistarla?

R. Cose di ragazzini. Una volta, di ritorno a una commissione per mia madre — ero andato in bici a comprare del prosciutto — vidi Laura passare dalla strada, e allora inchiodai proprio alla sua altezza, per far colpo. Ma…

D. Ma?

R. I freni erano perfetti e, avendo il pacchetto in una mano, frenai con la ruota davanti: fini a terra, col prosciutto. E “la” Laura, a ridere.

D. La bici era importante?

R. Ci facevamo gare a folle velocità intorno all’isolato, grazie al fatto che di auto ce n’erano pochissime. Ma una cosa che ci intrigava erano le gare di surplace, alla maniera dei ciclisti da pista che aspettano lo starter. A mezz’ore stavamo in equilibrio sotto il sole cocente. L’alternativa erano i carretti a cuscinetti e o le palline di plastica, con le facce di motociclisti, Giacomo Agostini e Renzo Pasolini, de corridori di formula uno, come Jacky Ics e Damon Hill, o dei ciclisti, come Jacques Anquetil e Moser, Aldo però. Erano il nostro divertimento anche a Marina, quando i miei prendevano una casa in affitto per tutto agosto: una spiaggia enorme e, allora, vuota.

D. Non mi ha detto com’era Grosseto.

R. Una cittadina sonnacchiosa, pochissime industrie, una faceva canotti in plastica, l’Eurovinil, l’altra i tessuti, la Paoletti. E poi, oltre all’aeroporto, l’ospedale.

D. Le scuole?

R. Dopo le medie, feci l’Itis per studiare da perito chimico, solo che gli ultimi due anni si doveva andare a Massa Marittima.

D. Un viaggio, immagino…

R. Che cominciava all’alba: treno alle 6,40 per Follonica, quindi l’autobus. Mia madre mi dava un thermos di thè. Quando arrivo su a Massa, compravo la schiaccia coi ciccioli: un portento. Mi diplomai con 60/60.

D. Ma, oltre a studiare, che faceva a Grosseto?

R. Stavo coi Giovani francescani della Gifra, animati da quel sant’uomo di padre Vittore Lino Parri. Fu mia madre a dirgli, una volta, che sapevo suonare la chitarra: “Arruolato”, disse lui. Era un bell’ambiente, con me c’era Alessandro Antichi, futuro sindaco. Lo chiamavamo “Pompierone”, perché già allora era imponente. Ma ci si conosceva un po’ tutti: Claudio Gentili, futuro dirigente di Confindustria, stava nelle Acli.

D. È l’università che la porta a Firenze?

R. Esatto. Fare una facoltà scientifica voleva dire andare a Pisa e poi a me piaceva filosofa. E, invece poi, alla fine scelsi Scienze politiche.

D. Vita da fuori sede.

R. In un appartamento di Via Vico, in zona Piazza Oberdan, molto grande. Con molti altri, toscani, marchigiani, sardi. Un giorno, ero al terzo anno mi pare, e stavo telefonando, non lontano dalla porta d’ingresso, poco prima di cena: suonarono alla porta, mollai la cornetta e aprii la porta. Mi trovai sbattuto di lato e quasi travolto da un plotone di agenti coi mitra puntati.

D. Prego?

R. Sì, era la Digos. Eravamo nel 1977, con violenze politiche ovunque. E qualcuno nel vicinato aveva telefonato in questura, c’era un gruppo di giovani, una casa che era un porto di mare.

D. Paura?

R. Abbastanza. Ci misero tutti contro un muro. Grandi urla, armi spianate. L’equivoco duro poco.

D. Perché?

R. Capirono presto che eravamo un gruppo di studenti ma cattolici. Con Vincenzo Indolfi, capo della Digos, ne abbiamo riso più di una volta, negli anni a seguire.

D. Sì, perché lei era entrato a far parte di Comunione e liberazione. Anni duri, quelli.

R. Abbastanza. Perché noi ci piccavamo di entrare malgrado i picchetti, di vendere i nostri giornali, di dare i volantini, di intervenire ai dibattiti. Una volta, non facemmo a tempo a entrare in assemblea, durante un’occupazione, che ci presero di peso e portarono fuori.

D. Menato?

R. No, spintonato. Un’altra volta alla mensa di S.Apollonia, dove arrivammo in gruppo, ci presero a seggiolate. La cosa peggiore fu una molotov contro la nostra sede, in Via della Fortezza, che però finì nel balcone del primo piano, incendiando l’appartamento soprastante.

D. Uno dei capi del Collettivo allora, il professore Gianni Cimbalo, se lo ritrovò vent’anni dopo in università.

R. Lui sindacalista Cgil, io parlamentare, per una novantina di lavoratori la cui assunzione rischiava d’essere invalidata.

D. E che successe?

R. Lui, mi tese la mano, presentandosi. E io gli risposi: “Guarda che noi ci siamo già conosciuti”.

D. Non si ricordava. Com’era allora la Cesare Alfieri?

R. Una grande facoltà. Feci l’indirizzo economico e mi ritrovai professori del calibro di Fausto Vicarelli, Ezio Tarantelliche si portò dal Mit, Mario Draghi a fare politica monetaria.

D. Com’era Draghi a lezione?

R. Molto bravo ma la materia era complessa e, siccome eravamo in quattro, non ti potevi distrarre un minuto. Mi fece arrabbiare un po’ quando mi dette 28, meritavo di più. Poi c’era Renato Ruggiero, futuro ministro del Commercio estero col Berlusconi I, Stefano Passigli, Paolo Barile. E Mario Luzi, che insegnava letteratura francese.

D. E Giovanni Sartori?

R. Come no? Ricordo come ci maltrattava in consiglio di facoltà, in cui ero stato eletto.

D. Tesi?

R. Avevo iniziato col povero Tarantelli, su un argomento molto complicato: l’effetto spiazzamento o crawding-out. Ma si trasferì alla Sapienza e farmi seguire per la tesi, come mi aveva offerto, divenne un po’ difficile. Per cui mi laureai con Vera Zamagni, con una tesi di storia dell’economia sul credito cooperativo.

D. Mi dica una pagina bella di quegli anni.

R. L’incontro con Giorgio La Pira, che portammo a parlare in “Aula 8” a Lettere, santuario della sinistra cittadina più dura, simbolo del ’68.

D. Come andò?

R. Riempimmo quell’aula da 400 posti e la gente stava in piedi. Lui, fece un discorso dei suoi, fra “Gerusalemme celeste”, e visione escatologica del mondo. Sul palco c’era un giovane Giovanni Pallanti. Ma furono anche molto belli, in quegli anni, gli incontri che avemmo con Giovanni Michelucci, che andavamo a trovare nella sua villa a Fiesole, Geno Pampaloni, che ci incontrava a casa sua, don Divo Barsotti e Tito Arecchi.

D. Firenze, com’era?

R. Stupenda. Era il bello reso quotidiano. Con gli amici ne coltivavamo la bellezza: andare al Carmine per vedere Masaccio, perché un’amica ne stava studiando una certa critica, era la cosa più ovvia. Oppure Giotto in S.Croce, il Ghirlandaio in San Marco.

D. E c’è un pezzo di città che le è più caro?

R. San Miniato. Perché è un luogo stupendo ma anche perché, coi compagni di università, ci si trovava spesso lassù a fare gli incontri, ospiti dell’abate Aldinucci che ci voleva davvero bene.

Tiscar, studente della Cesare Alfieri, con Giovanni Paolo II in visita a Siena

D. Lei ebbe un grande privilegio: sposarsi in Battistero.

R. È vero, il cardinale Giovanni Benelli volle fare, a me e mia moglie Paola, questo enorme regalo. Ci sposò lui, con don Luigi Giussani concelebrante. Era il 24 ottobre del 1981.

D. Che impressione le fece Benelli, già sottosegretario di Stato?

R. Arrivato a Firenze si mise a fare il vescovo, la visita pastorale che cominciò fu un momento di grande rinnovamento per tutta la Chiesa fiorentina. Verso di noi, giovani ciellini, era paterno. Con un gruppetto si vedeva periodicamente a cena in Piazza S.Giovanni.

D. Che cosa vi dicevate?

R. Chiedeva, voleva capire come vivessimo la nostra esperienza di fede. Una volta, con altri universitari, fui ricevuto da Giovanni Paolo II a Roma e, quando il Papa seppe che ero di Firenze, mi chiese di salutargli il cardinale: “Ce l’ho nel cuore”, disse. Quando lo riferii a Benelli, arrossì come un bambino. Di lì a poco cominciò ad andare in Vaticano sempre più spesso. Più avanti mi confidò che si sarebbe trasferito per sempre, perché il Papa lo voleva alla segreteria. La malattia, però, lo colse prima.

D. E Giussani?

R. Giussani mi voleva un gran bene. E aveva il potere di farti percepire la sproporzione fra te e ciò a cui la tua vita era chiamata. La mattina del matrimonio, mi venne incontro dicendomi: “Lele, ti sei ricordato di pregare la Madonna, in questi giorno?”. Ovviamente me n’ero dimenticato.

D. In politica come ci finì?
R. Quasi per caso, nel 1985. Dopo un incontro pubblico, con Giancarlo Cesana, a Palazzo Vecchio, a pranzo, in un ristorante del centro. Uno di noi disse che quell’anno ci sarebbero state le elezioni comunali e che sarebbe stato bello eleggere uno di noi.

D. Ricordo, una campagna elettorale a sorpresa.

R. I manifesti svelarono, di volta in volta, questo carneade di 29 anni. Alla fine lo slogan fu: “A Firenze c’è un fatto nuovo, dei giovani lanciano una sfida”.

D. Arrivò quarto. Mentre nel 1990 andò meglio: secondo dietro Gianni Conti e prima di Lapo Pistelli.

R. Contò l’esperienza di quegli anni, anche se all’opposizione.

D. Meglio, visto che era la giunta che bocciò lo sviluppo a Nord-Ovest, per la famosa telefonata di Achille Occhetto. Com’erano i rapporti con la maggioranza?

R. Umani, rispettosi. Ricordo quando col sindaco Massimo Bogiankino, gli assessori Giuliano Sottani e Graziano Cioniandammo a Nanchino, in delegazione ufficiale.

D. Che successe?

R. A Hong Kong, Bogiankino si fece sentire con la compagnia perché ci mettessero in prima classe. Ci riuscì, ma i bagagli non ci seguirono, per cui ci ritrovammo per tre giorni senza vestiti. E non è che la Cina di allora offrisse tante possibilità per comprare un po’ di abbigliamento. La cosa buffa sa quale fua?

D. Quale?

R. Che io, da ragazzotto alla prima esperienza, avevo volato in giacca e cravatta, mentre gli altri erano tutti col maglioncino, per cui, presentandoci alle autorità locali, ero l’unico credibile. La signora Bogiankino era così furente che, quando incontrò l’ambasciatore, lo gelò così: “Sono accadute cose inaudite e sono tre giorni che non mi cambio le mutande”.

D. Poi la missione sarà andata avanti.

R. A Pechino, ci fu un pranzo ufficiale al ristorante Ho Chi Minh: tutti davanti al classico tavolo tondo. Servivano thè, birra e aranciata, con lo staff del sindaco cinese che ne trangugiavano a iosa.

D. E quindi?

R. Quindi, a un certo punto, cominciarono a ruttare con grande non-chalance. Cioni, seduto davanti, mi guardò basito e riuscimmo a stento frenare le risa.

D. Nel ’90 però lei, rieletto, diventa assessore.

R. Il merito fu del giovane segretario del Psi, Riccardo Nencini, che volle fare il pentapartito, anziché riallearsi col Pci. A me dettero una delega importante: oltre la casa, anche l’edilizia privata e il patrimonio.

D. Al vostro interno ci fu molta dialettica.

R. Sì, perché i repubblicani, con Alfredo Franchini all’urbanistica, vincolavano qualsiasi intervento alla variante di Prg, ma che avrebbe voluto dire un’altra legislatura senza fare niente. Già uscivamo da una che aveva bloccato lo sviluppo della città. Riuscimmo a fare il Piano di edilizia economica e popolare-Peep, costruendo 2.500 nuove case.

D. Aveste poi qualche guaio giudiziario.

R. Quando io ero già diventato deputato. Una serie di inchieste per abuso d’ufficio, reato molto di moda allora, che si risolsero per quel mi riguarda in archiviazioni o assoluzioni.

D. E dell’esperienza di parlamentare cosa ricorda?

R. Anche lì arrivai in tandem con Nencini. Vagavamo un po’ sperduti a Montecitorio, con la netta sensazione che quella legislatura sarebbe finita presto: era infatti scoppiata Tangentopoli e la Prima repubblica scricchiolava.

D. Eleggeste un capo dello Stato.

R. Sì, Oscar Luigi Scalfaro, proposto da Marco Pannella sull’onda emotiva dell’uccisione, a Capaci, di Giovanni Falcone. Un periodo breve e difficile: ci fu un attacco alla lira, la svalutazione, il governo di Giuliano Amato varò una Finanziaria sangue, sudore e lacrime, e realizzò privatizzazioni importanti quanto discusse, quelle del Britannia per intendersi.

D. La motonave a largo di Civitavecchia dove furono tratte alcune importanti vendite di pezzi dell’industria di Stato a aziende inglesi. Quanto durò quella legislatura?

R. Un anno, 11 mesi e 23 giorni.

D. E dunque non maturò neppur il vitalizio.

R. Mi sono pagato i contributi per gli anni che mancavano, percepirò quel che ho maturato a 65 anni.

D. Vabbè la pensione. Poi lasciò la politica, trasferendosi a Milano.

R. Dopo un master alla Scuola di pubblica amministrazione e qualche concorso, andai a lavorare all’ufficio legislativo di Regione Lombardia, poi a quello dedicato alla programmazione.

D. E successivamente nel privato.

R. Volevo cambiare: andai alla Lyonnais des Eaux, quindi alla Thames Water, che si occupavano di acquedotti, e quindi alla Fiera di Milano, che stava costruendo il nuovo polo di Rho. Poi di nuovo in Regione, come direttore generale, prima all’energia e quindi alla casa e poi all’Aler, l’agenzia delle case pubbliche, con una parentesi a Finlombarda a occuparmi di banda larga.

D. Quindi l’ha chiamata Renzi. Ma com’era stato il suo impatto con Milano?

R. Carico di speranze. Ricordo, che avevo portato mia moglie e i miei tre figli in cima al Pirellone. E incontrai Robi Ronza, sottosegretario del governatore Roberto Formigoni, che conoscevo. Lo salutai e gli spiegai che ci stavamo trasferendo in Brianza.

D. E lui?
R. Lui rispose: “Benvenuti in fondo alla tazza”.

D. Ah, bene. Come ha trovato i lombardi?

R. Avevo sempre pensato che i fiorentini fossero chiusi, ma non avevo conosciuto i brianzoli.

D. Vale a dire?

R. Ingegnosità unica al mondo, per carità, ma una chiusura che ricalca i loro cortili e le loro cascine. Lucio Battisti, con la sua “Brianza velenosa”, non aveva torto.

D. Cose belle?

R. Certi luoghi, come la basilica di Agliate, un romanico strepitoso, e le colline intorno, mi parevano un pezzetto di Toscana.

D. Com’è finito a Como?

R. Un’altra pagina della mia vita: sei anni fa, con mia moglie, siamo diventati una famiglia affidataria, accogliamo bambini in temporanea difficoltà familiare. E l’associazione con cui lo facciamo, Cometa, è di quassù.

D. Quanti ne avete?

R. Quattro, due maschi e due femmine, dagli otto ai 18 anni. I nostri tre figli naturali sono tutti fuori casa da tempo, e siamo nonni di sei nipotini.

D. E Como com’è?

R. Sempre Nord. Manca la solarità toscana, le contrapposizioni, magari sanguigne ma veraci. Qui il carattere è freddo, quasi appiattito, anche se non mancano storie di umanità molto belle, come appunto quella dei fratelli Erasmo e Innocente Figini che hanno fondato Cometa.

D. Cosa le piace dei lombardi?

Hanno una laboriosità che a noi, oggettivamente, manca. Se hanno un’intuizione, se sentono una cosa vera, che sia un’impresa o un ideale, si rimboccano le maniche sul serio, le vanno dietro fino in fondo. Sono i lasciti della Controriforma, dell’opera di San Carlo Borromeo.

Un ritratto di Lele Tiscar, dipinto dalla moglie Paola, quando era studentessa in Accademia

D. E quando torna a Firenze?

R. Mi rattrista lo spopolamento del centro, iniziato già ai miei tempi. Stento a vedere una vita normale. Eppure negli anni ’70, il cuore della città era abitato, vissuto, c’erano scuole. E i turisti, così, erano ospiti in un tessuto vivo.

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Written by Goffredo Pistelli

Giornalista senza giornali. Twitter: @pistelligoffr Issuu: https://issuu.com/gpistelli Nella foto, il grande David Frost.

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