L’autista ubriaco, il dipendente comunale in mutande e il pedofilo: oziose riflessioni su giustizia e informazione
Negli stessi giorni, la notizia dell’autista rumeno linciato moralmente ma rivelatosi innocente e la condanna, istantanea e anticipata, della coppia accusata di abusare della figlia.
L’anno scorso, in Veneto, uno scuolabus si ribaltò. Per i bambini e l’autista solo contusioni e tanto spavento. Le prime cronache fornirono questo quadro: chi guidava, un rumeno, era scappato e successivamente arrestato per guida in stato di ebrezza.
A poco tempo dal dirottamento dello scuolabus nel Lodigiano, con l’autista, un francese originario del Senegal, a minacciare una strage, l’allora ministro dei Trasporti, Dario Toninelli, invocò e ottenne il licenziamento, seduta stante, dell’ubriaco alla guida, del codardo abbandonatore di bambini feriti.
Nei giorni scorsi, un giudice ha archiviato: l’autista aveva aiutato, uno per uno, i ragazzini a uscire dal mezzo, il ribaltamento era verosimilmente dovuto alle pessime condizioni dell’autobus che lui aveva più volte segnalato all’azienda, e anche i valori alcolometrici non erano tali da far parlare di ubriachezza. Sì era allontanato dal luogo dell’incidente per paura, perché di minuto in minuto sentiva crescere le urla e le imprecazioni dei genitori dei bambini, che lo avevano subito additato come responsabile.
Come ha riportato Repubblica, l’uomo oggi campa di lavoretti: nessuno lo vuol assumere come autista.
In questi stesso giorni, le cronache riportano di una orribile storia di pedofilia, fra Grosseto e Terni: un uomo, già noto per detenzione di materiale pedo- pornografico, viene arrestato con l’accusa di violenza sulle due figlie.
Le cronache però si concentrano tutte su un dettaglio, una frase ricavata dal provvedimento con cui il Giudice per le indagini preliminari convalida gli arresti richiesti dalla Procura: «Risulta verosimile, che lui e la compagna abbiano concepito un bambino per mettere in atto le loro perversioni».
Frase su cui i giornali hanno titolato, traducendo più o meno come ha fatto La Nazione: «Facciamo una figlia e poi lo stupriamo».
Ora, se la Procura ha chiesto e ottenuto gli arresti, rinvenuto materiale, fra cui un manuale di pedofilia, perché infilare, in un provvedimento, quella che può essere solo una congettura? Chi può dirci quello che i due, sospettati d’esser pedofili, pensavano al momento di fare una figlia, quattro anni fa?
Talvolta, il modo di presentare le indagini, i dettagli forniti, le parole usate, l’abitudine a «titolare» le inchieste con stile cinematografico se non pubblicitario, fanno pensare che interessi di più ottenere la condanna istantanea degli indagati da parte della pubblica opinione, anziché in un’aula di tribunale.
In subordine, tanto per usare il «giuridichese», che si voglia in qualche modo condizionare il giudizio: quale tribunale potrà essere così sereno da non tenere conto del clamore sollevato?
Ci sono Paesi, come la Germania, dove sulle vicende di indagine si mantiene un riserbo strettissimo fino a che non diventano processo e, pertanto, pubbliche. Sono Paesi in cui, spesso, del magistrato titolare di un’inchiesta non si conosce il volto, spesso neppure il nome.
Da noi, invece gli arresti vengono presentati in conferenza stampa, spesso con effetti speciali (foto, video, audio) ovviamente con narrazioni che filano lisce, ricostruzioni che collimano, ipotesi che tengono.
Il racconto dell’accusa, spesso, pare uno di quei giochini fatti con le tessere di domino allineate, spingendone una – oplà – vanno giù a migliaia.
A volte non è così: nei dibattimenti, dove si forma la prova, direbbe il «giusto processo» vassalliano, a volte, questi affreschi dipinti con tanto zelo da pm e polizia giudiziaria non restituiscono il quadro di colpevolezza dell’inizio. A volte, a guardar bene fra quelle pennellate, nella cornice accusatoria c’è altro.
Lo scuolabus non si era ribaltato perché l’autista era ubriaco e lui non è fuggito.
O, per stare a un altro caso di questi giorni, il dipendente comunale fotografato dai Cc, in mutande, a timbrare il cartellino, non truffava il municipio, ma viveva lì. Un giudice lo ha accertato, andando oltre quella ridicola foto.
È evidente che il rapporto giustizia-informazione meriterebbe d’esser ripensato.
Nei giorni scorsi, il Corriere dell’Umbria sembrava averlo fatto, annunciando che avrebbe cessato di dare dettagli scabrosi sull’inchiesta sulla pedofilia. Poi a leggere, l’editoriale del direttore, Davide Vecchi, si apprende che le nuova, apprezzabile, attitudine è accompagnata da un giudizio preventivo di colpevolezza degli indagati – «dopo aver letto gli atti», scrive «le prove a carico dei genitori appaiono inequivocabili, difficilmente potranno uscire dal carcere».
Di nuovo siamo ai processi celebrati sui giornali: senza difesa, senza appello, con la pena applicata «a vista». Casomai, senza inutile sfoggio di dettagli obbrobriosi.
Potranno sembrare discorsi oziosi, vuoti ragionamenti di principio. C’è sempre ben altro di più urgente, evidente, clamoroso.
Però se ci scandalizziamo, e giustamente, dell’attacco alla prescrizione, che rende la giustizia italiana meno giusta, non possiamo fare spallucce dinnanzi a questo circuito sempre più malato, che consente solo la declamazione stentorea delle ragioni dell’accusa.
Fonti: