E se al posto dei ministri gialloverdi ci fosse stato qualche vecchio Dc?
Mi capita spesso di tornare col pensiero alla prima repubblica. Ho 55 anni e ho sviluppato un precoce e insano interesse per la politica e l’informazione, ragion per cui mi ricordo molto bene la cara, vecchia Dc.
Un partito che, fra molti difetti, aveva ai miei occhi molti meriti (e oggi, ne ha acquistati retroattivamente molti di più ma questa è un’altra storia).
Un pregio che già allora si riconosceva alla classe dirigente democristiana era il senso dello Stato, o quantomeno di decoro istituzionale, che si concretizzava, di tanto in tanto, nel ricorso alle dimissioni.
Forse perché immersi fino al midollo nel proprio cattolicesimo, quei politici, quando commettevano un errore o quando – fatto ancor più interessante – come tale una loro condotta era percepita, facevano un passo indietro.
Giovanni Leone, presidente della Repubblica, martellato da L’Espresso sullo scandalo Lockheed, si dimise con un discorso alla nazione in tv, con voce rotta dall’emozione. Era innocente e la sua riabilitazione, parziale e tardiva, non gli ha neppure allietato uno scampolo di vita.
E che dire del ministro degli Interno Francesco Cossiga che, dinnanzi, al disastro del rapimento di Aldo Moro, lasciava il Viminale?
Vogliamo trovare un evento è un contesto meno drammatici? Prendiamo Franco Evangelisti, simpatico braccio destro di Giulio Andreotti. Era sottosegretario, forse alle Poste, quando Paolo Guzzanti raccontò su Repubblica, di un finanziamento (lecito, illecito?) da parte di Gaetano Caltagirone che, in pigiama, forse raggiunto nella suite di un hotel romano, – ma vado a memoria – gli si rivolse così: «A Fra’ che te serve?». Erano i soldi necessari a organizzare un raduno correntizio e a rivelare il fatto era lo stesso Evangelisti, forse in un eccesso di confidenza e forse non pensando che quel matto dell’inviato di Rep lo scrivesse.
Il pezzo comparve la domenica, mi pare, e il giorno dopo, Evangelisti aveva dato le dimissioni.
Certo, ci fu anche il rabbioso «non ci sto», pronunciato a reti unificate da Oscar Luigi Scalfaro, presidente della Repubblica, accusato di aver ricevuto – quando era ministro dell’Interno – una busta mensile dal Sisde, per gli usi «riservati» del ministro (per pagare i riscatti, dissero gli ottimisti). La Dc però non c’era già più, eravamo già, mani e piedi, nella seconda repubblica, e la moral suasion esercitata da Piazza del Gesù, la piscina dove la Balena Bianca nuotava, un pio ricordo.
Si dimettevano i Dc, sia quando sbagliavano sia quando si pensava che sbagliassero ed era eccessivo lo scandalo sollevato, troppo per esercitare l’azione istituzionale a cui erano chiamati.
Second quei criteri, oggi il Governo in carica sarebbe già stato decapitato.
Chessò Amintore Fanfani avrebbe resistito un giorno alla figuraccia del mancato commissario nel decreto per Genova fatta da Giuseppe Conte? Giovanni Goria avrebbe accettato d’essere zittito da un suo vice in Parlamento, come ha fatto di nuovo il premier con Luigi Di Maio: «Questo lo posso dire?» «No»?
Filippo Maria Pandolfi avrebbe tollerato le bacchettate nei denti – pubbliche e reiterate – che subisce Giovanni Tria?
Mariano Rumor avrebbe resistito e quanto, nei panni del ministro Paolo Savona, coi suoi lauti depositi in Svizzera – legittimi e dichiarati – ma politicamente ingombranti per un signore che sta al governo perché star no-eurista?
E, sempre parlando di Savona, impossibile per un qualsiasi leader dello Scudo crociato non fare un passo indietro, in una crisi come quella che bloccò il Paese per alcuni giorni, all’epoca del motivato diniego di Sergio Mattarella alla sua nomina.
Invece mi viene in mente nessun ministro Dc più politicamente «sfigato», un peone da Marina Mercantile, per intendersi, che avrebbe resistito alla serie di figuracce inanellate da Danilo Toninelli.