Della giustizia e del carcere. Conversazione con Lorenzo Zilletti

Goffredo Pistelli
10 min readFeb 20, 2022

--

Photo by Emiliano Bar on Unsplash

A fine gennaio ho intervistato l’avvocato Lorenzo Zilletti per ItaliaOggi. Una lunga conversazione in tema di giustizia che Pierluigi Magnaschi ha titolato a partire da uno dei fatti in essa menzionati: le 19 assoluzione dell’ex-governatore campano Antonio Bassolino. Il tempo dedicatomi da questo penalista era stato piacevolmente ampio, per cui ho riordinato anche altri argomenti trattati che non erano rientrati nella bella pagina pubblicata dal quotidiano. Qui trovate la versione “lunga” di quella chiacchierata, che tocca temi drammaticamente importanti.

Quattrocento lemmi ironici che raccontano il processo, i diritti, l’accusa, la difesa, in una parola la giustizia. Uno splendido Dizionario dei luoghi comuni, di flaubertiana memoria, ma rigidamente “giuridici”, che si intitola Apertis verbis (Mimesis), scritto da un avvocato fiorentino, Lorenzo Zilletti (1961), con oltre 30 anni di avvocatura alle spalle, molti casi difficili trattati, e più di un’assoluzione ottenuta che ha fatto notizia.

Zilletti è da sempre impegnato nell’Unione delle Camere penali, di cui oggi guida il Centro studi che porta il nome di Aldo Marongiu, penalista cagliaritano morto prematuramente negli anni ’90, dopo un incredibile errore giudiziario che l’aveva condotto in carcere per omicidio, insieme a tre colleghi: i pentiti che li accusavano furono smentiti e condannati ma, intanto, lui se n’era andato per una leucemia.

Domanda. Avvocato, quasi 90 anni fa, un suo concittadino, che faceva il suo stesso mestiere, dava alle stampe “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. Era Piero Calamandrei. Oggi lei scrive un simpatico libello che spesso ha nel mirino giudici e procure.

Risposta. No, no, Pistelli non mi metta in competizione con un padre della Costituzione, andiamo…(ride).

D. Ha ragione, però lei, da Gustave Flaubert dell’avvocatura, ci va giù duro. Anche se con simpatia. Per esempio alla voce “Bassolino”, nel senso dell’ex-sindaco, governatore, ministro, deputato Antonio scrive: “Assoluzione”, non una ma diciannove volte di seguito. Tanti i giudizi che hanno visto l’ex-Pci-Pds-Ds-Pd uscire assolto…

R. Se posso dire una cosa seria su questa vicenda…

D. Deve…

R. Mi colpisce la reazione di generalizzato stupore alla notizia dell’ennesima assoluzione, senza che nulla cambi nel sistema: molti si sono chiesti come sia stato possibile, che una persona sia finita così tante volte a processo, per quanto fosse innocente. Io parlo anche del sindaco dem di Lodi, Simone Uggetti.

D. “530 e Lodi”, scrive, richiamando l’articolo del Codice di procedura Penale che, al primo comma, definisce l’assoluzione più larga: “Perché il fatto non sussiste”.

R. Esatto. Oppure, per stare a una vicenda di questi giorni, quella dell’ex-governatore siciliano Raffaele Lombardo, assolto, anche lui perché il fatto non sussiste, dopo 12 anni. Una carriera troncata.

D. Nel lemma che dedica alla separazione delle carriere — “più drasticamente, il divorzio”, lei suggerisce — mi pare che voglia scherzare meno e indicare quella strada per risolvere un po’ dei problemi della nostra giustizia.

R. La separazione delle carriere è il carattere identitario della Unione delle Camere penali italiane: ci sono dentro avvocati di diversi orientamenti politici, spesso molto distanti fra loro, ma certo su questo principio c’è davvero il consenso di tutti i colleghi. E non solo degli avvocati, penso per esempio a Paolo Borgna, un ex-magistrato, a lungo procuratore aggiunto a Torino, che ritiene necessaria l’adozione del sistema inglese, con la circolarità delle professioni giuridiche.

D. Ossia?

R. In Gran Bretagna i giudici vengono selezionati nell’avvocatura mentre da noi si sceglie la via burocratica, del concorso, di funzionario dello Stato, sia pure di altissimo livello. Almeno separandone le carriere, un imputato, nei vari gradi di giudizio, non rischierà di trovarsi giudicato dal collega di chi lo ha mandato a processo nel primo. Ma c’è un’altra ragione che renderebbe necessaria questa riforma.

Lorenzo Zilletti, avvocato

D. Vale a dire?

R. La sempre maggiore dipendenza dei pubblici ministeri dalla polizia giudiziaria.

D. Spieghiamolo.

R. Si vede bene nelle inchieste che abbiano, per così dire, una specialità tecnica, come quelle in campo economico-finanziario o ambientale: il pubblico ministero, non essendo esperto in materia, si affida totalmente alla competenza della Guardia di Finanza, nel primo caso, o dei Carabinieri del Nucleo ecologico. Spesso certi provvedimenti sono giocoforza ricalcati dagli atti della polizia giudiziaria di turno, appunto.

D. Che cosa determina questo stato di cose?

R. Fa sì che il pubblico ministero si schieri a sostegno di una tesi accusatoria e la difenda fino all’ultimo. Un atteggiamento poco da magistrati.

D. Che potrebbe fare? I tecnici sono loro…

R. Sforzarsi di verificarne l’effettiva tenuta, con metodo ‘scientifico’. Quindi, Quando i pm ci rispondono che la separazione delle carriere minerebbe la cultura della giurisdizione, si potrebbe osservare che da questa cultura, in contesti del genere, si sia abdicato già.

D. Tanto vale separare, lei dice.

R. Si rafforzerebbe, questo sì, la cultura della giurisdizione del giudice, che sarebbe davvero terzo e arbitro. Perché con le debite eccezioni…

D. Ché ci sono sempre ovviamente…

R. Certo, con le debite eccezioni, la maggior parte dei giudici non si pone fra lo Stato e il cittadino, è sempre dalla parte del primo. È come una partita che cominciasse sempre sul 2 a 0 per lo Stato.

D. I lemmi che riguardano il Giudice per le indagini preliminari, “adatto al fuoristrada” lei scrive, e il Giudice per le udienze preliminari che, lei motteggia, “guida avendo per navigatore il Gip”, fotografano un’altra faccia del problema: figure, inserite nell’ordinamento, per bilanciare i poteri del pm che, però, salvo rarissimi casi, si pongono in contrasto.

R. Il tema della separazione si avverte molto di più per queste figure, con i pubblici ministeri, che per i giudici del dibattimento. È la vicinanza di carriera che si combina fra i ruoli, fra pm e gip, a creare più imbarazzo. Tant’è vero che non c’è proporzione fra il numero dei rinvii a giudizio che il gup concede al pm e poi il numero delle assoluzioni che, dal giudizio, emergono.

D. Forse ci sarebbe voluta qualche archiviazione in più…

R. Eh sì. E lì scontiamo un limite della riforma Vassalli del 1988: da un lato la mancata riforma dell’ordinamento giudiziario e dall’altro l’aver consentito ai giudici istruttori di diventare gip. Uno dei pochi che non lo fecero fu Giovanni Falcone.

D. E che scelta fece?

R. Si rese conto che, nel processo accusatorio, dove chi indaga non può giudicare, lui sarebbe dovuto andare a fare il pubblico ministero. Fu un errore fondamentale, ripeto, pretendere un cambiamento di pelle e mentalità da giudici abituati ad inquisire.

D. Sì ma questo fu il peccato originale. E poi?

R. Poi le cose si sono riprodotte e la contiguità delle carriere — da pm a gip a gup e ritorno — ha perpetuato lo schema. Oggi fa notizia un gip che non accolga le richieste del pubblico ministero.

D. O, come nell’inchiesta sulla tragedia del Mottarone, che a una gip venga addirittura tolta un’inchiesta. Nel suo dizionario c’è anche questa voce: “Verbania, changez la femme”.

R. Esattamente (ride).

D. Poi c’è il processo mediatico. Il “combinato disposto” di procure-cronache giudiziarie-socialnetwork, propone quasi una giustizia parallela: i pm presentano le inchieste (e spesso gli arresti) in maniera molto mediatica, attribuendo nomi anche suggestivi alle indagini, rappresentando con enfasi le loro teorie accusatorie. Dopodiché il tribunale dei social, che rilancia gli articoli dei giornali online, emette le sentenze di colpevolezza. Inappellabili. Twitter fa Cassazione.

R. C’è un problema culturale: pochi dei suoi colleghi si pongono criticamente rispetto al racconto dell’accusa. I principi costituzionali, come la presunzione di innocenza, sono tutt’altro che assorbiti. E’come se un nuovo processo misto, avesse fagocitato quello accusatorio: i pm hanno capito che la risonanza mediatica delle proprie inchieste può essere decisiva anche per la successiva fase di giudizio e che far filtrare certe informazioni rafforza la tesi accusatoria.

D. Qualche bravo collega di giudiziaria dice però che la colpa è anche di voi avvocati difensori, che non date le notizie

R. Tesi che conosco: ci obiettano di dire poco o nulla, a caldo, quando veniamo interpellati. Ma, senza la piena contezza degli atti, spesso migliaia di pagine, si è costretti ad affermazioni di circostanza. D’altra parte, rilancio io, è come se fosse nato un mezzo nuovo di prova: un testimone è persona informata sui fatti dal pm ma è anche testimone da Massimo Giletti. Inizia un circuito per cui, quando comincia il processo, un avvocato difensore ha sempre il dubbio di cosa dover contestare a un testimone: quello che ha detto al pm o quello che ha aggiunto poi a L’Arena? È un connubio che muta la natura stessa dell’atto giudiziario. Come l’intercettazione, letta o fatta recitare in tv.

D. Di qui lo sgomento generale quando poi, invece, interviene un’assoluzione.

R. Eh, il cittadino si dice: “Ma come? Abbiamo, sentito, letto, visto che le cose erano in un certo modo e ora un giudice dice che così non è?”.

D. A volte ci si chiede come questi meccanismi non possano non condizionare il giudizio.

R. In effetti, al giudice è chiesta equidistanza, un’impermeabilità nel giudicare che, a volte, è davvero difficile ipotizzare rispetto a tanta pressione. Difficile che non nasca almeno un pregiudizio: è il famoso 2–0 al fischio di inizio che, nel paragone calcistico, le dicevo prima.

D. Ora la direttiva europea imporrebbe di evitare queste comunicazioni che possano rappresentare l’indagato come colpevole. Qualcuno già ha gridato al bavaglio.

R. Il vero bavaglio è quello sulle assoluzioni: non esiste alcuna proporzione fra quanta reputazione di un imputato possa uscire distrutta dalla narrazione di un’inchiesta o di un processo e il risalto dato a un’assoluzione: dopo anni viene liquidato tutto senza un centesimo del clamore con cui era stata raccontata un’accusa. Ma non solo…

D. Ossia?

R. Ossia quando si dà la notizia di un’assoluzione, ci faccia caso, si riprendono i testi in archivio e si ridanno tali e quali, così come un pm li aveva raccontati, solo premettendo che c’è stata l’assoluzione. Nessuno cioè ha seguito il processo, rilevando magari che quel fatto, quell’accusa, quel sospetto erano totalmente infondati. Per tornare a Bassolino…

D. Torniamoci.

R. Nessuno ha capito perché sia stato assolto 19 volte, perché quando si è data la notizia della sua estraneità ai fatti addebitati, ci si è guardati dal dire perché.

D. È cambiata la narrazione. Dino Buzzati raccontava il processo a Rina Fort, si andava cioè in corte d’assise, con grande pathos…

R. Esattamente. Alla fine, il recente recepimento di quella direttiva europea non è altro che il tentativo di dare attuazione al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Non dovrebbe nemmeno fare notizia. Informare è doveroso ma non è la stessa cosa vedere recitate coincide con la recita in tv delle intercettazioni. Speriamo. Però non è solo un tema di stampa.

D. E cioè?

R. La direttiva riguarda anche la modalità di redazione di quegli atti accusatori: non c’è davvero bisogno di scrivere le ordinanze di custodia cautelare con certi toni, con certi aggettivi, con certe iperboli? Definizioni dell’indagato, un po’ da gergo poliziesco, tipo “proclive a delinquere”. I magistrati dovrebbero parlare dei gravi indizi che motivano la privazione della libertà, non deve fare un esercizio etico.

D. A volte, quei provvedimenti contengono una serie di giudizi morali che non parrebbero richiesti.

R. Il decreto legislativo 188, quello che ha recepito la direttiva, è infatti rivolto ai magistrati, oltre prima che ai giornalisti. Richiederebbe sobrietà. Il problema è che in quel decreto manca la sanzione processuale e allora tutto diventa un po’ teorico. Vedremo.

D. Una pratica molto discussa è quella dei fatti non penalmente rilevanti che, dall’interno degli atti di inchiesta, approdano alla piazza virtuale dei social. Spariranno?

R. Resto pessimista. Il brogliaccio di un’intercettazione, costruisce spesso un ritratto etico della persona, serve a costruire il consenso verso l’ipotesi accusatoria.

D. E c’è poi il tema delle intercettazioni a strascico, vale a dire del mettere sotto ascolto alcune utenze per trovare notizie di reato che, nel suo Apertis verbis, lei definisce “pesca di frodo”.

R. La legge stabilisce una gravità di pena per individuare la soglia oltre la quale si può intercettare. Il legislatore cioè ha stabilito che la compressione di un diritto fondamentale, come quello alla libertà e alla segretezza della comunicazione, possa avvenire ma a certe condizioni, ossia nell’ipotesi di un reato grave. Il punto però è che cosa si faccia di quelle conversazioni acquisite, ipotizzando reati più gravi, ma che poi si rivelino addirittura contravvenzionali: fino a una sentenza della Cassazione del 2020, accadeva che nel giudizio si potessero comunque utilizzare. E in molti vorrebbero tornare indietro. Così come l’ipocrisia dell’intercettazione del difensore, via…

D. Ricordiamola.

R. Secondo certe sentenze, dipende da chi telefona: se il mio cliente mi telefona può essere intercettato e io naturalmente con lui. Se lo chiamo io, no. Beh insomma…

D. Un tema su cui le Camere penali sono state sempre sensibili è poi il carcere. Il lemma che dedica ai penitenziari è un’amara parafrasi di Cesare Beccaria: “Dei relitti e delle pene”.

R. Ci sono vari aspetti. Uno è che è incredibile che non siamo riusciti a costruire misure alternative al carcere, nel primo secolo del terzo millennio, siamo sempre lì.

D. Soluzioni?

R. Le offrirebbe la Costituzione che permetterebbe la decretazione di urgenza, strumento a cui si ricorre assai di frequente: si fanno ogni anno centinaia di decreti urgenti “sulla qualunque”. Sul carcere, che è un’emergenza vera, ci si guarda bene dall’intervenire. Anche le aree politiche che, a parole, si dicono più sensibili, poi si guardano bene dal fare qualsiasi cosa, nel timore di perdere consensi. Un paio di anni fa mi arrabbiai col sindaco di Firenze, Dario Nardella.

D. E per cosa?

R. Perché voleva intitolare il carcere di Sollicciano ad Alessandro Margara.

D. E perché mai arrabbiarsi? Era un giudice di sorveglianza, poi capo del D.a.p al ministero della Giustizia, davvero molto illuminato.

R. Quello il punto: per le condizioni in cui versa quel penitenziario, Margara si sarebbe rivoltato nella tomba.

--

--

Goffredo Pistelli
Goffredo Pistelli

Written by Goffredo Pistelli

Giornalista senza giornali. Twitter: @pistelligoffr Issuu: https://issuu.com/gpistelli Nella foto, il grande David Frost.

No responses yet